Infobesità digitale e crisi dell’attenzione: così l’eccesso di informazione sta rimodellando il nostro cervello

Autore: Claudio Caldarola

Viviamo immersi in un flusso costante e irregolare di stimoli informativi. Apriamo il telefono per osservare un’immagine serena del mare e un istante dopo ci troviamo di fronte a una pubblicità, a un’influencer che spiega come truccarsi o a un titolo di cronaca che scorre via veloce senza lasciare traccia. Il nostro cervello, sottoposto a questa continua alternanza di contenuti scollegati, reagisce adattandosi a un ritmo che nulla ha a che vedere con la riflessione, con la concentrazione o con la costruzione del sapere. In questo scenario si insinua silenziosamente un fenomeno sempre più diffuso e preoccupante quello dell’infobesità. 

L’infobesità è la condizione in cui il volume delle informazioni disponibili supera la capacità dell’individuo di processarle in modo coerente e significativo. Se da un lato il progresso tecnologico ha reso accessibile una quantità impensabile di dati, dall’altro ha generato un sovraccarico che compromette la qualità della nostra attenzione. Secondo numerosi studi neuroscientifici condotti negli ultimi anni, l’esposizione continua a contenuti digitali brevi e decontestualizzati riduce la capacità di mantenere il focus e altera il funzionamento della memoria di lavoro. In particolare, gli individui esposti con regolarità a interruzioni digitali mostrano una difficoltà crescente nel gerarchizzare le informazioni e nel costruire connessioni logiche tra concetti. La mente non si spegne, ma fatica a distinguere ciò che è rilevante da ciò che è superfluo. La rivoluzione digitale ha trasformato non solo il modo in cui accediamo alle notizie ma anche il modo in cui pensiamo. Non ci troviamo più di fronte a testi da decifrare con attenzione, bensì a una sequenza di frammenti visivi, emotivi e sonori che si susseguono senza ordine né criterio. Questo continuo cambio di stimolo impedisce l’attivazione dei processi mentali profondi, quelli necessari per riflettere, elaborare e interiorizzare. Il cervello, invece di concentrarsi, si adatta a saltare da un’informazione all’altra, perdendo la capacità di soffermarsi. Nel tempo dell’informazione immediata e discontinua, la nostra capacità di lettura profonda si affievolisce. Ci abituiamo a scorrere più che a soffermarci, a reagire istintivamente anziché riflettere con continuità, perdendo progressivamente la disposizione all’analisi lenta e alla comprensione articolata. 

Nel mondo della scuola e dell’università, le conseguenze di questa trasformazione si manifestano in modo evidente. Gli studenti mostrano una crescente difficoltà a sostenere l’attenzione su un’unica attività per più di pochi minuti, faticano a distinguere una fonte autorevole da una speculazione non verificata e si affidano a sintesi automatizzate invece che affrontare un testo nella sua interezza. Anche i docenti, immersi nello stesso ambiente iper-stimolato, sperimentano la frammentazione della propria concentrazione e la necessità di adattare la didattica a una generazione abituata all’istantaneità. L’insegnamento stesso rischia di trasformarsi in un intrattenimento informativo, perdendo il suo carattere formativo e il suo valore critico. Tuttavia, questo fenomeno non è irreversibile. Diversi studiosi suggeriscono che occorre insegnare, fin dalle prime fasi dell’educazione, un atteggiamento metacognitivo nei confronti dell’informazione. Ciò significa sviluppare negli individui la capacità di interrogarsi su ciò che leggono, di interrogare le fonti, di discernere i diversi livelli di attendibilità. In altre parole, occorre coltivare la lentezza mentale in un mondo che premia la rapidità. È un compito culturale, oltre che pedagogico, che richiede uno sforzo congiunto da parte delle istituzioni, dei formatori e degli stessi cittadini digitali.

L’informazione, se non regolata da criteri di selezione e profondità, si trasforma in rumore. E nel rumore è difficile ascoltare, comprendere, decidere. Riconoscere i segnali dell’infobesità non significa condannare la tecnologia ma ripensare al nostro rapporto con essa. Significa cioè restituire valore alla concentrazione, al silenzio, alla lettura lenta. Significa, in ultima analisi, ricordare che la mente ha bisogno di tempo per pensare e che la conoscenza non è il frutto della quantità, ma della qualità delle informazioni che scegliamo di coltivare nella nostra mente.

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