L’intelligenza artificiale ci ruberá l’intelligenza

Autore: Claudio Caldarola

C’è un silenzio nuovo che attraversa le nostre giornate. Non è quello delle biblioteche o dei deserti digitali ma quello che accompagna gesti sempre più automatici, compiuti senza attrito, senza esitazione, senza fatica. È il silenzio di chi non pensa più, perché qualcun altro, o meglio, qualcos’altro, lo fa al suo posto. Inizia spesso con un’email da correggere, un testo da tradurre, un concetto da chiarire. Il tempo è poco, le soluzioni rapide abbondano ed ecco allora che si apre una finestra, si interpella una macchina, si copia la risposta. Poi si fa ancora. E ancora. Fino a non sapere più con esattezza dove finisce l’intelligenza umana e dove comincia quella artificiale. 

Che l’innovazione abbia sempre cambiato il nostro modo di pensare non è una scoperta. La scrittura ha liberato la memoria, la stampa ha moltiplicato le idee, internet ha accelerato il sapere. Ma l’intelligenza artificiale sta segnando un passaggio ulteriore, quello di surrogare il nostro pensiero. Il termine usato dagli studiosi è offloading cognitivo. In breve, deleghiamo. Delegare è comodo, ma non sempre privo di rischi. Quando la delega diventa consuetudine, il pensiero si atrofizza. 

Una recente pubblicazione su Societies rileva un indebolimento delle capacità critiche nei soggetti più esposti all’uso dell’intelligenza artificiale per compiti ordinari. Non si tratta di un’emergenza sanitaria, ma di una deriva mentale. Su Frontiers in Psychology si parla apertamente di atrofia cognitiva indotta dall’intelligenza artificiale. Un concetto forte, che evoca ciò che accade agli arti se lasciati troppo a lungo immobili. La mente, come il corpo, ha bisogno di esercizio. Altrimenti perde tono, slancio, profondità. E ciò che rende questa trasformazione così pericolosa non è la sua velocità, bensì la sua normalizzazione. Nessun allarme rosso, nessuna interruzione improvvisa. Solo una progressiva sostituzione, un lento disimpegno, una dolce resa. Il pensiero smette di essere un lavoro e diventa un clic. Serve allora uno sguardo critico, non impaurito, ma vigile. Non si tratta di opporsi all’intelligenza artificiale, né di criminalizzare l’innovazione. Si tratta, piuttosto, di difendere un patrimonio interiore che rischia di sbiadire. Il pensiero, la riflessione, l’errore, la riformulazione. Il percorso e non solo il risultato. La vera posta in gioco non è l’efficienza, ma la libertà mentale e con essa la capacità di riconoscere ciò che ci definisce come esseri razionali, imperfetti e proprio per questo profondamente Umani. 

Una civiltà che ottimizza tutto ma non pensa più nulla non è solo vulnerabile ma è, ahinoi, inconsapevole. E’ proprio l’inconsapevolezza il primo segno della sconfitta. Per questo occorre fermarsi. Non per paura della macchina ma per difendere il lavoro silenzioso e insostituibile della mente. Pensare non è un ostacolo da aggirare, è un esercizio da proteggere. Non serve trovare subito una risposta ma serve ricordarsi che abbiamo ancora il diritto, e soprattutto il dovere, di cercarla da soli.

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